Che provi pensando a casa?

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scaliEsce sbattendo la porta di casa e i vetri al mio fianco vibrano di rimando.

Chiudo gli occhi ed è come riaprirli e vedermi: silhouette scura e sottile, gli avambracci nudi contro il ferro freddo della ringhiera sospesa sulla città. Questa città che scorre ai miei piedi rombando terribile, ha un richiamo ovattato e moltiplica luci mostruose.
Scorre. Io immobile. Sola. Sorda. Sospesa sopra di lei. 

Immobile? Solo il corpo è fermo: stento a credere che chi mi guarda non lo veda che, col pensiero, volo.

Da bambini, per scherzo gli chiedevo cosa di impossibile avrebbe voluto saper fare: viaggiare veloce come la luce, rispondeva. Io, allora: la luce viaggia nel tempo. Dentro sorridevo, pensando volesse azzerare il divario d’età che – già lo sentivamo – ci avrebbe impedito di volare allo stesso ritmo, quando avremmo iniziato a sentir paura di cadere. Nessun superpotere: le cose sono andate come dovevano e, da poco, l’età adulta mi ha colta lontana da lui. Come foglie di uno stesso ramo separate dal vento, all’università siamo atterrati l’una a Strasburgo, l’altro a Padova.  

Ieri, rientrando, ti ho trovato sul divano; la borsa mi è scivolata a terra e ti sono saltata al collo, puramente felice. Che fai qui, ti ho chiesto con gli occhi. Nei tuoi è passata un’ombra fredda.
Mi hai chiesto che provo pensando a casa. Ti ho detto che casa è dove sono io. Hai sorriso ironico, hai distolto lo sguardo. Che credi, che non sappia che pensi? Che sono un’ingrata ad aver abbandonato il Paese che mi ha consentito d’arrivare fin qui. Eppure non mi sento colpevole.
Una lacrima spicca un salto dalla linea del mento e atterra in un punto sfocato nel magma cittadino.

Non leggo il tuo agire, non interpreto le tue scelte e non le giudico: non sono te e se hai deciso di restare in Italia, probabilmente al tuo posto avrei fatto lo stesso. Mai lo saprò: per me, la vita è stata questa, la storia è stata questa, non posso riscriverla. Di questa parlo, solo questa vedo con parziale chiarezza, le ragioni delle mie scelte le trovi nel mio fato e nelle mie reazioni. 

Per casa, intendevi la patria, l’Italia. Ci sono nata, ne parlo la lingua, ne incarno le tradizioni, ma non so più dare a questa parola il suo senso più antico: se anche fosse ancora da liberare, ad animare questo travagliato mio corpo non ci sarebbe la fiamma vitale dell’ardore foscoliano. Definiscimela, descrivimi, tu che ci vivi, un’immagine o un moto d’animo che associ alla parola patria. È la terra natale a cui si sente di appartenere. Ma da che valori può essere ispirato oggi un sentimento patriottico?

Chiudo ancora gli occhi, stavolta mi guardo dentro. Setaccio il fondo del mio cuore di italiana ed è come accendere un lume in una stanza buia.
Da un lato, provo orgoglio per il senso di meraviglia di fronte allo spettacolo umano, di cui il talentuoso coraggio di alcuni ha intriso la definizione di sentimento italico. Al pari di innumerevoli altri. Dante, Petrarca e Leopardi hanno declinato la loro percezione dell’umanità nella lingua che sarebbe diventata la mia. L’hanno fatto con una dedizione alla loro passione talmente sincera da marcare indelebilmente le nostre monumentali città.

Ma il sentimento italico non è solo soddisfazione per una particolare identità culturale. È anche, credo – e soprattutto, per il suo carattere di implicazione attiva e partecipativa alla vita comunitaria – quella che si sente dentro come una profonda condivisione del valore di solidarietà tra esseri umani ugualmente liberi. Lo stesso su cui si fonda la nostra Repubblica, lo stesso per cui lottavano i partigiani. Nel mio spirito italiano leggo la Costituzione, redatta per una collaborazione pacifica e proficua tra i membri di una comunità che condividono realtà e futuro, contro ogni forma di riduzione della libertà e della dignità della persona umana. 

Ma una riflessione si impone, perché, se apro gli occhi, la realtà  su cui si posano è incoerente con i principi dei padri costituenti.
Non trovo solidarietà umana effettiva in uno Stato che rifiuta di accordare la pietà della legge del mare. A maggior ragione, quando i profughi a cui la nega paiono la nostra controparte  in altre epoche.
Non vedo lealtà tra cittadini eguali di fronte alla legge laddove chi è al potere favorisce i tentacoli invisibili della criminalità organizzata.
Sento, invece, le ali tarpate da un sistema scolastico che, quantomeno tra quelli dell’Unione Europea, è uno dei meno sovvenzionati all’adattamento alla realtà socioculturale in cui è immerso chi, per mezzo suo, dovrebbe maturare uno sguardo critico. Provo disgusto nei confronti di una mentalità di stampo machista che sento pervadere il mio quotidiano e impedire, nel pratico, l’emancipazione femminile da uno stato di subordinazione psicologica comune a età e realtà differenti; una mentalità che mi spaventa, per il grado di normalità che raggiunge grazie al nutrimento fornito dalle stesse donne, in particolare da quelle che ricoprono incarichi eminenti. 

Ho il cuore in gola ogni volta che scendo dal treno che mi riporta alle città in cui sono cresciuta e sospiro ogni volta che parto. Ora sola su questo balcone mi risuona Voltaire: La patrie est aux lieux où l’âme est enchaînée: le ambientazioni dei miei ricordi, i luoghi dove ho interiorizzato i valori a cui mi hanno educata.
Andando altrove per studiare, ho scoperto che lì è almeno parzialmente in atto ciò che in Italia è in potenza. Altrove, in virtù del loro ruolo chiave rispetto al futuro governativo, amministrativo e di lotta alla crisi climatica e ai disequilibri sociali che questa provoca, le menti giovani non sono sull’ultimo gradino della scala delle priorità di chi è al potere. Ecco perché, se l’Unione Europea mi incoraggia ad entrare in contatto con realtà culturali diverse dalle mie per arricchire la mia natura di essere umano rispettoso del proprio simile, benché ciò si opponga alle tirate di manica di un’Italia che teme la “fuga di cervelli”, io seguo questo richiamo. 

Le chiavi girano nella toppa della porta alle mie spalle, che si apre cautamente. Entri, fai qualche passo, ti dirigi verso il balcone, mi vedi, china sulla città. E te lo dico: pensando casa, quel che provo è il bisogno di sincerità verso me stessa, sempre, senza la quale non posso far emergere dal fango i valori fondamentali di un’esistenza umana pacifica e rispettosa del prossimo, dell’Altro.
Con un braccio mi circondi le spalle fredde e penso che, sebbene tu in Italia ci viva, forse anche per te la tua casa su questa Terra non sei che tu, e la tua patria ancora la devi trovare.

Irene Scali

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