Generi di conforto

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foto articolo Vaudetti, Generi di confortoStoria della nostra scomparsa, un  libro di Jing-Jing Lee, è uno di quei volumi che ha raccolto un grande successo di pubblico fin dalla sua pubblicazione nel 2019. Il titolo può dare l’idea di una storia d’amore strappalacrime, ma non è così. In realtà è una fiction storica che raccoglie tante storie di atrocità compiute da un’organizzazione di “fantasmi” : durante il secondo conflitto mondiale, ragazze e giovani donne furono costrette a una vita di abusi fisici e psicologici con i quali avrebbero convissuto per tutta la vita.  

E’ la storia delle donne di conforto, giovani obbligate a far parte di gruppi creati dalle forze militari dell’Impero Giapponese per essere le loro prostitute. L‘idea di creare i “centri di conforto”, secondo la corrispondenza militare dell’esercito imperiale giapponese, nasce con lo scopo di prevenire gli stupri di guerra, che avrebbero incrementato l’ostilità dei locali verso i soldati giapponesi. Il primo “centro di conforto” fu aperto a Shanghai nel 1932. Inizialmente, le donne di conforto erano prostitute giapponesi che si offrivano volontarie per questo servizio. Tuttavia, ben presto i militari i si trovarono a corto di volontarie, per questo decisero di sfruttare le donne che vivevano nelle zone invase (alcune di loro furono anche prelevate dai campi di concentramento). Molte furono reclutate con l’inganno: accettarono le proposte di lavoro fatte dai giapponesi per mansioni in fabbriche o in ambito ospedaliero, non sapendo che sarebbero state costrette ad essere schiave sessuali. Con il proseguire della guerra la situazione non faceva che prendere una piega sempre più negativa. Lungo la linea del fronte, soprattutto nelle campagne, i militari giapponesi esigevano spesso che i governanti locali fornissero loro le donne per i bordelli. Quando la popolazione locale, stanca dei continui abusi, decise di ribellarsi, i soldati misero in atto la Sanko sakusen (“politica dei tre tutto” – uccidi tutti, saccheggia tutto, distruggi tutto), politica che portò ad episodi di violenza mai vista prima e ingiustificata. 

Non vi furono discussioni relative al problema delle donne di conforto fino alla chiusura dei centri, dopo la guerra di Corea. Il Giappone, dal canto suo, non ne fece parola fino al ristabilirsi delle relazioni con la Corea del Sud, nel 1965. In Corea, come in Cina o in Giappone, le vicende di queste donne non potevano essere raccontate o divulgate, tanta era la vergogna. Solo in seguito a numerose testimonianze fu emanata la dichiarazione di Kono del 1993 che confermò l’effettiva esistenza di abusi durante la guerra. Sono poche le donne di conforto ancora vive oggi, ancora meno quelle che hanno avuto il coraggio di parlare nel corso degli anni. Lo stigma che le ha accompagnate per un’intera esistenza ha sempre fatto sì che si esponessero poco, non raccontando mai i soprusi di cui erano state vittime negli anni Quaranta.  Approssimativamente, i tre quarti delle donne in questione morirono e la maggior parte delle sopravvissute perse la fertilità a causa dei traumi e delle malattie trasmesse.  

Molte storie – come testimoniato nel 1990 da Jan Ruff-O’Herne, una delle poche sopravvissute, di fronte alla Camera statunitense – sono state raccontate su orrori, brutalità, sofferenze e inedia delle donne olandesi nei campi di prigionia giapponese. Ma una storia non fu mai raccontata, la storia più vergognosa della peggiore violazione dei diritti umani commessa dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale: la storia delle comfort women, le jugun ianfu, e di come queste donne furono prese con la forza e contro la loro volontà, per provvedere alle necessità sessuali dell’Esercito Imperiale del Giappone. Nei cosiddetti “centri del comfort”, sono stata sistematicamente picchiata e violentata giorno e notte. Anche i dottori giapponesi mi stupravano ogni volta che visitavano i bordelli per visitarci a causa delle malattie veneree” 

Elena Vaudetti 

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