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55 giorni di congiura

articolo Scali16 Marzo 1978. Si tratta di una data storica, che segnò l’apoteosi della sfida delle Brigate Rosse allo Stato e al contempo l’inizio della loro fine. Fu anche, tuttavia, la data iniziale dell’agonia dell’uomo che rese possibile, attraverso il compromesso storico, un’alleanza politica tra comunisti e democristiani, che avrebbe superato, in piena guerra fredda, la contrapposizione ideologica che divideva il mondo.

Ogni qualvolta si cita il 16 marzo, si parla di una data spartiacque. C’è stata un’Italia pre-sequestro Moro, un’Italia sotto scacco per i lunghi 55 giorni di prigionia, e un’Italia post-sequestro, che non sarebbe mai più stata la stessa. Per comprenderlo a fondo, è necessario immergersi, per poche ore, nell’Italia precedente al rapimento di via Fani.

15 marzo. La tensione politica è alle stelle: il quarto esecutivo Andreotti, la cui presentazione alle camere è prevista il giorno successivo, con lo storico appoggio del Partito Comunista, è in rampa di lancio. Una delle critiche più aspre viene dall’Osservatore Politico, sul quale Mino Pecorelli titola il proprio pezzo Proprio alle idi di marzo del 1978 il Governo Andreotti presta il suo giuramento nelle mani di Leone Giovanni. Dobbiamo attendere Bruto? Chi sarà?

Un titolo per molti premonitore, dal momento che Pecorelli ha importanti contatti nel mondo politico. E’ impossibile sapere fino a che punto si spingesse la consapevolezza del giornalista, ma il titolo è oggettivamente inquietante se letto ventiquattr’ore più tardi.

Il TG1 della sera racconta agli italiani di un violento attacco israeliano in Libano, per poi soffermarsi sulle nomine dei sottosegretari del nuovo governo e sull’ennesimo rapimento a Roma, questa volta ai danni dell’industriale Apolloni.

Aldo Moro si trova in quel momento nel suo studio di via Savoia, dove sta limando gli ultimi dettagli per la presentazione dell’indomani. A tarda sera, fa avvertire Enrico Berlinguer, segretario del PCI, che la lista dei ministri è ormai chiusa: i comunisti non avranno una rappresentanza diretta nel CdM, ma Moro specifica che si farà garante di futuri cambiamenti nella struttura governativa. Forse, tornato a casa, anche lui ascolta il racconto della crisi mediorientale e del sequestro Apolloni al GR notturno. Nello stesso momento, i brigatisti sono già in azione: le ruote del camion di un fioraio vengono squarciate, per impedirgli di essere presente l’indomani in via Fani, come di consueto.

16 marzo, 8:55. Moro esce dalla sua abitazione di via Trionfale per salire su una Fiat 130 blu di rappresentanza. Alla guida c’è l’appuntato Ricci, mentre sul sedile del passeggero siede il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta. La 130 mette in moto, seguita da un’alfetta con a bordo i restanti tre membri della scorta.

All’incrocio tra via Fani e via Stresa, Mario Moretti, uno dei leader delle BR, attende il convoglio in una Fiat 128 bianca. Ha preso in mano l’esecutivo centrale delle Brigate Rosse quattro anni prima, dopo l’arresto di Curcio e Franceschini e la morte di Mara Cagol, e, sequestro dopo sequestro, ha portato un vero e proprio attacco al cuore dello Stato.

All’arrivo delle due auto, Moretti blocca loro la strada. Dalle siepi del vicino Bar Olivetti escono quattro brigatisti, con false uniformi da avieri dell’Alitalia, che aprono immediatamente il fuoco sulle due auto. I cinque membri della scorta vengono crivellati di colpi, mentre Moro, illeso, viene fatto scendere e caricato su un’auto pronta alla fuga. In una Roma ancora sotto shock dall’accaduto, l’auto con a bordo l’ostaggio viaggia fino a Piazza Madonna del Cenacolo, dove Moro viene rinchiuso in una cassa forata nel retro di un furgoncino. Alle 10, l’onorevole si trova già in via Montalcini 8, rinchiuso in un vano insonorizzato largo 90 cm, chiamato dai brigatisti Prigione del Popolo.
Se nel mondo studentesco, infiammato all’epoca dai moti rivoluzionari, si gioisce per il tentativo di rovesciamento dell’ordine sociale, dal mondo politico proviene un sentimento diffuso di ira e preoccupazione. Il PCI, dal canto suo, condanna l’atto come frutto di una strategia ben più articolata, nella quale le Brigate Rosse non sono altro che dei semplici esecutori materiali. La Democrazia Cristiana, invece, teme che Moro riveli ai brigatisti importanti segreti di Stato.

La linea condivisa dal governo è dunque quella della fermezza: dalla DC si alza lo slogan “Non si tratta con le BR”. Nelle sue lettere, il leader democristiano rapito critica aspramente l’iniquità e l’indifferenza del partito, per poi dichiarare il suo definitivo distacco da esso. A queste critiche la DC rispose affermando che Moro è sotto l’effetto della sindrome di Stoccolma: “è Moro ma non è Moro”, è la frase usata da Andreotti per giustificare le dure affermazioni dell’onorevole.

Già dal pomeriggio è ordinata una perquisizione a tappeto della capitale, che si dimostra tuttavia un insuccesso. Il ministro degli Interni Cossiga viene allora affiancato da uno psicanalista, Pieczenik, che valuta Moro come una pedina sacrificabile e decide di continuare con la linea della fermezza.

55 giorni di prigionia.

9 maggio 1978. I brigatisti concludono il loro Processo del Popolo e condannano l’onorevole a morte. Una condanna scontata, dal momento che l’assoluzione di Moro significherebbe l’assoluzione dell’intera DC. Due ore più tardi l’esecuzione, nonostante alcuni dei componenti dell’esecutivo centrale valutassero vantaggiosa l’eventuale spaccatura originata da un ritorno di Moro in politica. Dopo aver condotto Moro in uno scantinato, Moretti lo uccide con 12 colpi di pistola per poi farlo ritrovare in Via Caetani, avvolto in una coperta nel bagagliaio di una R4 rossa.

1 dicembre 2023. A quarantacinque anni dalla primavera del 1978, molti particolari del caso Moro restano ancora oscuri. Una cosa è certa: Aldo Moro fu una figura iconica di un’Italia che si avviava verso un periodo di rinascita nazionale. Troppi avevano interesse a mandare fuori strada chi stava rendendo possibile quel cammino; si trattò, insomma, di un cocktail mortale di coscienze sporche, di disfacimento istituzionale. Un cocktail che Moro bevve quell’infausto mattino del 9 maggio.

Sebastiano Scali