“Accabadora”: un estremo bisogno di vita

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Ho letto “Accabadora” tutto d’un fiato, di notte, in sala, seduta sul divano, riscaldata da una coperta, sotto la luce soffusa dei faretti. Sentivo il respiro regolare provenire dalla stanza delle bambine.

La notte è il momento ideale per leggere “Accabadora”, testo che dalla notte trae il suo fascino. Racconta una storia al confine tra la vita e la morte, e sul limite tra la vita e la morte pone delle domande a cui non riusciremo mai a rispondere.

Lo fa con la delicatezza propria delle donne, condannate e al tempo stesso redente dal loro utero. Lo fa con la consapevolezza che non si può “dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”. Lo fa con un invito a non avere “sempre fretta di emettere sentenze”, quelle che uccidono. Lo fa con l’esortazione a diventare madre per chi, all’ultimo, ha bisogno di vita. Lo fa con uno stile secco e succoso, come la terra in cui è ambientato, fatta di campagne arse dal sole e di dolci incartati nella velina colorata.

Maria Listru, bambina con la tasca dell’abito bianco macchiata di ciliegie, ha voluto “giudicare del come senza capire il perché”, perdendo così la possibilità di vivere gli anni dell’adolescenza accanto a Bonaria Urrai, la madre ‘de anima’, la donna che l’ha scelta per allevarla e per amarla.

Alla fine, quando torna da lei, non può fare altro che chinare il capo verso il suo volto, sfiorarle la guancia con le labbra e premerle un cuscino sulla bocca, senza essere fermata da nessun senso di colpa.

“Le colpe, come le persone, iniziano a esistere se qualcuno se ne accorge”, o, forse, se qualcuno le rende tali, perché il discrimine fra innocenza e peccato è molto incerto, e determinarlo non è facoltà dell’uomo. Ma neanche dell’Eterno. Per l’Eterno, quel conta è Amare.

 

          Linda Soglia

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