In margine a “sei zero nove bis – in difesa di un uomo”: sulla felicità

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Testo coraggioso, “sei zero nove bis – in difesa di un uomo”, e coraggioso il suo autore, Roberto Capra, perché pone tante questioni e non pretende di risolverle. Una mi ha colpita; si intreccia con la vita di tutti. “Era il suo vero momento di svago dal mondo, dal suo mondo quotidiano, da tutto quello che amava, ma che era anche un faticoso impegno. Di professionista, di marito, di padre”: la partita di calcetto del martedì sera a cui l’integro avvocato Fornari, l’eroe di una vicenda tormentata, non avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Lette da una madre, moglie, professionista, queste parole rimbombano nella coscienza, perché toccano una questione delicata: che cosa significa “essere”, quanto può occuparsi della sua essenza – cioè, di sé stessa – una donna chiamata a rivestire i ruoli di madre, moglie, professionista? Diciamocela tutta: usando espressioni come “il mio essere donna si manifesta, si compenetra, si esalta nel mio essere madre, moglie, professionista”, “la fatica viene compensata dalle tante soddisfazioni che ricevo in cambio”, rassicuriamo quella parte di noi che ha bisogno di farsi una ragione del logorio della vita quotidiana, che deve dare significato al suo essere madre, moglie, professionista, ruoli che la santificano davanti agli uomini e davanti a Dio. E tiriamo in ballo un’altra questione: come la mettiamo con chi non è madre, moglie e professionista? Questo è uno dei modelli, non il Modello. Ritornando a noi: è difficile dire “Basta! Ho voglia di tempo per me!”.  Lontana dai figli, dal marito, dal lavoro – perché è difficile ammettere che fare la madre e la moglie, che lavorare stanca; perché occorre avere coraggio nello scoprire e nel confessare che, anche se ami i tuoi figli, tuo marito, il tuo lavoro, essere madre, moglie, professionista costa molta fatica. E ogni tanto ti chiedi chi sei tu. E così devi ammettere che tutte le passioni iniziali ad un certo punto vanno scemando, poi ritornano, poi scemano di nuovo. Solo i bambini e ancora gli adolescenti, che hanno bisogno di energia per costruire e affermare la propria identità, concepiscono la permanenza della stessa intensità iniziale. Poi si cresce e lo stato di “passione eterna” si trasforma, a meno che il bisogno di far girare il mondo attorno a sé stessi non permanga; a volte si assiste a vere e proprie “colonizzazioni”, che portano dolore intorno a sé e dentro di sé. Ma è un dolore che non si vuole o non si riesce a vedere, perché, in questo stato di adolescenza prolungata nell’età adulta, per mascherare la propria insicurezza, spinti dal bisogno di essere accettati, si arriva a calpestare chi malauguratamente si trova sulla propria strada. Quindi l’apparente felicità è raggiunta ad un caro prezzo, quello del seminare infelicità negli altri. E se vogliamo continuare a dircela tutta, una distorta concezione religiosa oppure etica spinge a testimoniare una felicità artefatta, tutta esteriore, che tenta di trasportare all’esterno la propria inquietudine interiore. La felicità è una piccola perla di cristallo così preziosa che non si può mostrare troppo: si rischia di romperla. Le persone a cui piacciono tanto le proprie forme, cioè il proprio modo di vivere – di essere madre, moglie e professionista, ad esempio – rischiano di mascherare il loro essere attraverso il loro agire, dal quale vengono rassicurate. In “Gli stadi della vita” Carl Gustav Jung afferma: “Quello che la giovinezza trovava e doveva trovare al di fuori, l’uomo del pomeriggio deve trovarlo al di dentro”. Ciò che conta è scavare a fondo nella propria anima, dove si possono scoprire l’orgoglio, l’ostinazione, la durezza di cuore, i giudizi spietati, le chiacchiere, i comportamenti falsi e i desideri sleali, attraverso i quali si tenta di reprimere la propria paura. La lezione proviene dalle Sacre Scritture e dai testi classici – penso alle tante sollecitazioni che pongono, ad esempio, le lettere di Cicerone, Orazio, Seneca.
E allora, che cosa possiamo testimoniare ai giovani? Forse, che bisogna godersi le proprie passioni, ma non bisogna avere paura di vedere e confessare le proprie frustrazioni, perché non vederle non significa che non esistano, anzi, significa amplificarle e non risolverle, spargendo tristezza attorno a sé.

Linda Soglia

 

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