Janette – capitolo secondo

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Anche questa è passata. Ci mancava poco e gli sbirri mi avrebbero sicuramente vista. Per fortuna ho avuto il tempo di scendere per le scale in fiamme, uscire da una finestra che, corrosa dal caldo, stava crollando e uscire da una porta secondaria. Un altro edificio in fiamme. Di nuovo i pompieri, di nuovo i poliziotti. 

Mi avrebbero portato in caserma, chiesto perché una ragazza incinta si trovava sul luogo di un incendio e perché tenevo stretto un accendino in mano. Io avrei risposto … Mi avrebbe dato il modo di rispondere!?

Domanda di facile risposta. Probabilmente avrebbe strangolato sua madre, lui che ne regola le funzioni vitali, i pensieri e, a volte, sempre più spesso ormai, i sentimenti.

Da un po’ non sono più in grado di controllarmi. Rido quando dovrei piangere. Piango quando … no, non sono più felice da un pezzo.

E sono sempre, costantemente arrabbiata. Il desiderio di vendetta cresce ogni istante dentro di me, quanto più cresce lui dentro di me. Il cambio repentino di umore è tipico di una gravidanza, lo so per certo, data la moltitudine di libri che ho letto a riguardo.

Ma io sono una madre atipica.

Passo da una beata sete di vendetta a una bramosia irrefrenabile, un istinto omicida, che si conclude con la costante della mia vita..

Gli incendi. Ho avuto il primo mese per rendermene conto, il secondo per capire come funzionava e gli altri tre per arrendermi.

Ancora quattro mesi di terrore e tutto sarebbe finito. Per me. Fine del mondo di J. Lui sarebbe sopravvissuto, insieme al mostro che avrebbe amato e rispettato, mostro che anche io ho amato e venerato. Sarebbe tornato a prenderlo.

Io nel frattempo, nell’ attesa della sua venuta, vivevo nel bar dove una volta lavoravo.

Uno stanzino buio.

 

(flashback)

Portatemi via da qui, sussurro al pompiere più vicino. Un singhiozzo. Un altro e un altro ancora.

Quello, temendo un altro attacco da parte mia, con un breve accenno del capo, decide di accontentarmi.

Un singhiozzo. Un altro e un altro ancora.

Quindi mi ritrovo sola, in un autocisterna dei pompieri, pronta per essere uccisa.

Tanto cosa vale la mia vita adesso. Adesso che ho perso tutto : la mia Cami, il posto in cui potevo rannicchiarmi tristemente per piangerla, la mia voglia di vivere.

Un singhiozzo. Un altro e un altro ancora.

La vita di una ventitreenne scandita dai singhiozzi. Impossibile.

È adesso che decido la mia vita. Basta con il passato. Lei era l’unica che mi teneva ancorata alla mia vita orribile del passato. Mi portano le sue cose. Un peluche, un foulard, un rossetto.

BASTA!!!.

Nel momento stesso in cui pronuncio la parola nella mia testa, il cellulare squilla.

Numero sconosciuto.

Sono indecisa, non so che quella chiamata deciderà la mia vita. La mia morte meglio.

<Pr..o..to>, riesco solo a dire. Un contegno. Riproviamo.

<Pronto>, dico con voce sicura. Molto meglio.

< Buona sera, sono il titolare del locale “Fires” sto parlando con la signorina Carter ?

< Si, sono io, dica pure>. Non ci credo, avranno sbagliato.

< Ecco, volevo confermarle l’assunzione al nostro locale. Inizia domani, ore diciannove, non porti niente, la divisa gliela daremo noi. Arrivederci >

 Non riesco a rispondere che ha già attaccato. Ecco il nuovo inizio che stavo aspettando. Io ballerina fallita, avrò una seconda occasione, solo per ballare ancora.

Un singhiozzo. Un altro e un altro ancora.

È solo grazie a lei. Lei che non c’è più. Sarebbe fiera di me. Della mia voglia di ricominciare, di ripartire da zero. Un nuovo lavoro, una nuova casa, una nuova vita, forse.

Volto le spalle alla mia vecchia esistenza, fatta di dolore e sofferenza. Giuro di non tornare.. L’unico pezzo di passato che porterò con me, sarà Camilla. Ciò che rimane di lei. Parto verso il mio futuro, con un peluche, un foulard, un rossetto. Vado incontro alla felicità penso.

Mi stavo sbagliando.

 

Ho giurato a me stessa, ma a quanto pare, questo genere di promesse, sono le più deboli.

E quindi eccomi qui, nella bettola che chiamavo casa. A fare i conti con un’esistenza che mi ero promessa, non di dimenticare, ma di seppellire in fondo ad un cassetto impolverato della mia testa.

Mi ritrovo davanti ad un mucchio di detriti e cose bruciacchiate. Davanti a pezzetti di mattoni, lanciati a chissà quanti metri dal luogo di origine da quello scoppio micidiale.

L’unica cosa ancora in piedi è il cancello di ingresso, miracolosamente “sopravvissuto”.

Non capisco perché non abbiamo demolito il tutto o ricostruito, sarebbe stato molto meglio non avere la realtà stampata davanti agli occhi, come una foto. Molto meglio per me. O per i miei insistenti sensi di colpa.

Se non fossi andata a quel stramaledetto provino, Cami sarebbe viva, e tu non saresti in questa situazione!.

O saremmo semplicemente morte entrambe. In un violento scoppio, i nostri occhi si sarebbero incrociati un’ultima volta, quasi in pace, nel pensiero che non lasciassimo nessuno in questa vita, triste, a piangerci.

E invece sono rimasta io.

Tristemente, a piangerla. A volte mi ritrovo più arrabbiata con lei, che con la reale causa di tutto questo, un incendio. Sono arrabbiata. Perché mi ha lasciata qui da sola, in balia di me stessa e di qualcosa molto più grande di me, senza il suo supporto, senza la sua irrefrenabile simpatia.

Ma ora è finita. Mi devo dare un contegno, non posso riincendiare una casa già incendiata, visto che era la mia casa incendiata.

Abbandono ancora una volta la mia casa, ritornando…

 

Eccomi, sono qui. Sono arrivata dove mi aspetta il futuro. Ricomincerò dal “ Fire”, locale molto alla moda, dove potrei trovare il mio principe azzurro e la sua cabrio.

Dove ballerò sei volte a settimana, esclusa la domenica ovvio, dalle nove di sera alle cinque di mattina. Orario un po’ stancante ma è questo che voglio: ballare fino a stancarmi, avere i calli sotto il piede, essere talmente tanto distrutta da dimenticarmi di tutto. Ricominciare da zero. Mi daranno anche una casa : una piccola soffitta che condividerò con un’altra ragazza: Pat. Penso sia il diminutivo di Patricia o qualcosa del genere. Entriamo : il locale senza quelle luci intermittenti, fredde, è strano quasi accogliente. Sono disposte delle poltrone azzurre per tutta la larghezza del salone; sulla destra è come se ci fosse una specie di piccolo patio, e poi…il mio cuore si ferma alla vista del palco, lucido e piuttosto piccolo, adatto a me, che devo riprendere a ballare.

Seguo con lo sguardo quello che dovrebbe essere il mio datore di lavoro: basso, un po’ tarchiato, estremamente stressato.

< Mi segua le mostro il suo…mmm…alloggio…Dovrebbe esserci anche la sua…coinquilina>. Si, è in evidente agitazione, continua ad asciugarsi la fronte con un sudicio fazzoletto. Non riesco a capire perché, dovrei essere io quella agitata.

<Mmm…lei è la signorina…Carter giusto?>, mi chiede salendo le scale a chiocciola. Dalla luce siamo quasi arrivati.

< Si, sono io, comincio oggi no?…E mi chiedevo se…insomma la mia “divisa”>

Siamo arrivati in mansarda. È un po’ squallido come posto, sempre meglio che niente. Si nota un tocco femminile: sono state montate delle tendine a scacchi e la maggior parte della “casa” è stata ripulita dallo strato di polvere che la permeava da troppo tempo; un letto era disfatto, l’ altro accuratamente rifatto.

< La sua stanza signorina…la divisa gliela daranno all’ inizio dello spettacolo…arriverà a momenti anche la signorina…>

Pat, concludo nella mia testa.

Se n’è già andato.

Chiara Carrera (1C)

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