L’Onda

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L’avvento del nazismo e le sue conseguenze: non solo parte di uno dei secoli storicamente più importanti, ma anche dimostrazione di quanto l’uomo possa spingersi oltre i limiti della propria moralità in determinate situazioni sociali. L’errore che non si deve commettere in partenza se si vuole arrivare ad una comprensione di questo fenomeno, è pensare che le persone che l’hanno vissuto e ne hanno preso parte, fossero in qualche modo diverse da noi.

Per averne la conferma, basta guardare il film di Dannis Gansel uscito nella primavera del 2008: “L’Onda”. La trama della pellicola vede come protagonisti un professore e dei ragazzi come noi, della stessa età, nella Germania moderna. Adolescenti diversi, con vite  e gusti disparati ma che sotto molti aspetti ricordano i nostri. Ma la vera natura di questi caratteri emerge solo quando, sfidando l’incredulità dei propri allievi, il professor Wenger decide di dimostrare loro che la possibilità della nascita di una nuova dittatura è ancora validissima al giorno d’oggi. Da così il via ad un esperimento, creando l’Onda, un gruppo con tanto di divise, logo e saluto ufficiale che comprende tutta la classe, indipendentemente dagli individui che ne fanno parte. Vengono fissate delle regole e gli allievi iniziano a percepire cosa vuol dire far parte di un gruppo, sentirsi protetti e proteggere, avere una guida e delle regole comuni, godere gli stessi diritti al pari dei propri compagni. Ma il coinvolgimento della classe arriva a tal punto che fra più deboli, e non solo, l’Onda non è più un semplice gioco. La vita del “branco” e la sua volontà diventano più forti di qualunque volontà individuale, finché la situazione non sfugge al controllo del professore stesso, assumendo risvolti tragici.

Come quasi tutte le bestie, l’uomo cerca l’appartenenza ad un branco per due motivi fondamentali: forza e protezione.

Protetti dai propri compagni, uniti dagli stessi ideali, ci si sente più forti, più sicuri e soprattutto nelle personalità più deboli, quelle che vivono in diretta dipendenza dal proprio gruppo, si iniziano a manifestare i sintomi che preannunciano il superamento dei limiti: aggressività e superiorità.

Inizia lo sfogo della propria potenza, la dimostrazione del proprio potere su tutti quelli che non fanno parte del gruppo, quelli che per i singoli individui rappresenterebbero una minaccia ma che ora, grazie all’unione con i propri compagni, diventano vulnerabili. E se non c’è niente che possa fermare quest’onda, questa continua ad avanzare, sfogando su ciò che ha attorno quelli che sono i prodotti di una profonda insicurezza sociale.

Ma arrivando alla domanda cruciale: davvero tutto questo non accadrà più? O sta già succedendo di nuovo, ogni volta che un gruppo di ragazzi ne pesta un altro in nome del proprio “ideale”, sia che questo riguardi politica o moda? Non si parla solo di Neofascisti o simpatizzanti verso ciò che furono le vecchie dittature; qualunque gruppo di persone si affezioni troppo al suo branco, rischia di riaccendere una nuova forma di fanatismo violento.

Non è la solitudine la soluzione, perché se è vero che l’uomo rischia di compromettere la sua individualità in gruppo, bisogna anche tenere conto che è una “bestia istintivamente sociale”. Non c’è un trucco per stare in equilibrio fra queste due realtà: basta usare la testa, possibilmente la propria. La nostra non è più una generazione in crisi come quella del ventesimo secolo; abbiamo tutte le possibilità per poter scegliere e cosa più importante, pensare. Questi gruppi di recente formazione, che si ispirano alle vecchie fazione alle quali appartenevano magari i nostri genitori (i quali erano spinti da reali necessità), a una moda piuttosto che ad un’altra, sono solo sintomo di una difficile affermazione dell’identità del singolo, che con tutta la libertà che si trova davanti, finisce per ragionare passivamente cercando il consenso della folla. Nonostante il novanta per cento delle banali commedie americane per teenager ci rifila da anni la solita solfa: “Sii te stesso!”, noi non ci riusciamo, e ci lasciamo andare come un branco di stupidi cagnetti aggressivi.

Invece di sbraitare davanti a uno stadio con una bandiera o andare in giro con una maglia del Chè (senza magari neanche sapere chi è…), sarebbe carino provare a sfoggiare l’unico gadget che davvero ci fa notare nella folla, che ci da uno stile ed una personalità tutta nostra: la testa che abbiamo attaccata al collo.

 

 Eugenia Beccalli (3F)

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