Ventidue ottobre 2025, carcere delle Vallette, Torino.
Si entra in un cortile spoglio, niente colori, niente fiori, niente vita, solo la morte che traspare dai volti delle carcerate e quattro mura grigie: inquietudine, angoscia, terrore sono gli unici sentimenti che assalgono.
Passati i primi attimi, ci si accorge di quanto sia strano essere usciti dalla propria bolla quotidiana ed essere stati catapultati in una realtà che, per molti, sembra costituire il metaverso.
Stupisce quanto i set cinematografici riescano a descrivere con assurda precisione un ambiente tanto macabro: le donne sono disposte sul muretto, ridono e fumano senza cognizione del tempo, che, all’interno di quelle quattro mura, per loro ha forse smesso di essere rilevante.
Si notano signore più adulte, di un’età compresa tra i cinquanta e i sessanta anni, alcune senza denti, altre senza capelli, altre ancora con la pelle rigata dagli anni, lo sguardo si sofferma però su una ragazza, giovanissima e mal ridotta, sembra che abbia vissuto quattro vite, eppure ha solo una giovane età.
Perché è lì? Qual è la sua storia?
Si chiama Daisy e porta un cappellino nero che le copre i pochi capelli che le rimangono sul capo, la pelle è segnata da imperfezioni, indossa vestiti stracciati e tra due dita sorregge una sigaretta.
Corre verso di noi e la prima cosa che chiede è “com’è la vita là fuori?”.
Di primo acchito si gela il sangue a udire tali parole: come può essere finita in quel luogo? Come può essere senza speranza, priva di sogni?
Passeggia avanti e indietro nella stessa striscia di cortile. Ride. Dà l’impressione di non preoccuparsi della sua vita che sta andando in fumo. Si accende una sigaretta dopo l’altra. Sghignazza. Desidera trasmettere quasi un senso di superiorità nei nostri confronti.
Racconta in seguito di essere cresciuta in Barriera di Milano e di essere finita in carcere per furto e spaccio. Da altri stralci di racconto, si intende poi che la famiglia è spesso stata assente, dunque, che non è certo cresciuta in una “bolla”.
Nonostante tutto, è apprezzabile che certi valori in noi siano innati e che la concezione di cosa è giusto e cosa no, sia onnipresente: anche crescendo in un ambiente malfamato, il concetto “non fare al prossimo ciò che non vorresti fosse fatto a te”, è universale, anche se non sempre viene applicato.
Poco più tardi, sopraggiunge una carcerata più anziana, inizia a chiacchierare con noi e afferma che la stragrande maggioranza di persone uscita dal carcere è tornata poco tempo dopo. è dunque giusto assistere in un percorso di riabilitazione chi, per propria scelta, non lo desidera davvero?
Il dibattito tra noi si fa interessante e arriviamo alla conclusione che è giusto il sistema carcerario pensi a rieducare, al fine di un reale reinserimento all’interno della società, ma affinché questo avvenga, è necessario che non manchi mai la speranza e la forza di volontà e che chi sbaglia affronti la vita con coraggio e stupore, altrimenti tutto diventerebbe vano.
Tutti possono redimersi e, perché no, realizzare i propri sogni nella vita, ma quello che non dobbiamo dimenticare è che, spesso, alle stesse carcerate, spaventa più la vita esterna che la costrizione carceraria.
Lucia Tortorella
